Il problema delle aree interne non sono le aree interne
Il contenitore delle aree interne raccoglie tante esperienze, e molto spesso si abusa del concetto di identità declinandolo in base alle necessità, e affidandosi alla tradizione come dogma.
Le grandi multinazionali riescono a fare breccia, attraverso sponsorizzazioni, proprio nei borghi ridotti a icona di se stessi, e in territori in cui non esistono progetti economici. Aree spesso gestite come feudi in cui si redistribuiscono ruoli e competenze in base al sistema di regali e e protezioni.
Il rischio è di usare eventi culturali di grande impatto per far cedere il passo ai Big Men delle aziende, che vorranno prima o poi riscuotere le elargizioni in cambio di aree interessanti.
L’oro delle aree interne è che sono le nuove periferie. Rimaste obsolete rispetto ai centri di produzione, e che hanno già pagato un costo altissimo. Il miraggio delle fabbriche in aree rurali e pastorali ammalia animatori locali e qualche amministratore. Il rischio è consegnarli per qualche milione di euro a chi vuole speculare, causando un danno immenso. Il male oscuro non è lo spopolamento, ma la dimensione dell’attesa che si respira nei paesi in declino economico.
Mettere le etichette è più semplice che assicurargli servizi sanitari, manutenzione, sicurezza, centri culturali, scuole, trasporti. In certe aree isolate va assicurato almeno il diritto alla residenza così come il diritto all’abbandono, ma per scelta.
Nonostante siano zone con forti criticità rimangono un patrimonio immenso.
Non consegnare ai pirati le aree interne e porsi in maniera laica rispetto a una strategia sembra uno dei compiti più difficili da mettere in atto.