Mentre pensiamo a cosa fare dei nostri paesi quel che resta ce lo suggerisce.
Riusciremo mai ad abbandonare la sicurezza, ad avvicinarci alla terra e ad accettare il mondo per com’è e per come potrebbe essere nostro malgrado? La paesologia di Arminio e di quanti riescono a vedere la bellezza in ciò che altri vogliono farci credere brutto ci fornisce molte risposte a fiato sospeso, o per dirla come Arminio “risposte provvisorie”. Come provvisorie sono le comunità perché è obsoleto continuare a credere che la comunità possa ricostruirsi una volta per tutte. E allora cosa resta? Tracce, schegge, colori, luci e ombre, pietre, mattoni, intonaco, archi, architravi; tutte identità provvisorie che hanno la capacità di raccontare la nostra storia più di qualsiasi trattato. Forse allora basterebbe averne nostalgia per riguardare con occhi nuovi e diversi ogni progetto di futuro. E anche il tempo dev’essere quello di riappropriarci dell’aria, del sole e dei dialoghi a cuore aperto.
I Disertori
Franco Arminio
Molte case hanno la siepe intorno
e le sedie da giardino fuori,
ma il paese non c’è.
Una volta c’era solo qualche palazzo
e un grumo di casupole e pagliai,
ma il tutto formava un paese,
piccolo o grande che fosse,
aveva una sua misera identità, un suo sapore,
perché le persone prima che abitare una casa
abitavano un luogo.
Ora ognuno ha piantato la sua reggia,
preferibilmente in periferia,
per tenersi lontano, per dire sto qui,
ma vorrei essere altrove.
Chi resta nei paesi
più che abitarli li svuota.